Il culto fascista di Roma e della romanità: orientamenti ideologici
Un concetto dominante è quello della forte continuità della storia di Roma dalle origini, e specialmente da quando affermò il suo dominio nel Mediterraneo, fino all’era fascista; l’immagine del filone ininterrotto può essere sostituita, tutt’al più, dall’immagine della vita che s’interrompe e poi risorge, senza conoscere mai la morte definitiva. L’utilizzazione del culto di Roma e della romanità immortale era già un’idea di Mussolini che si preparava a marciare sulla capitale: in un discorso pronunciato a Udine nel settembre del 1922, aveva detto:
A Roma, tra quei sette colli carichi di storia, s’è operato uno dei più grandi prodigi spirituali che la storia ricordi, cioè si è tramutata una religione universale che ha ripreso sotto altra forma quell’impero che le legioni consolari di Roma avevano spinto fino all’estremo confine della terra. E noi pensiamo di fare di Roma la città del nostro spirito, una città, cioè, depurata, disinfettata di tutti gli elementi che la corrompono e la infangano, pensiamo di fare di Roma il cuore pulsante, lo spirito alacre dell’Italia imperiale che noi sogniamo.
La rivista «Roma», alla sua nascita, fu aperta da un articolo anonimo, in cui l’autore esaltava, con scintillante retorica, la vicenda eterna della città imperiale e cristiana: cito uno dei passi in cui l’oratore vola più alto:
L’eterna vicenda di Roma, la sua vita millenaria, dai re pastori che ai piedi del Campidoglio selvoso numeravano il bestiame lanuto, ai Cesari purpurei sul Palatino scintillante d’oro e di marmi, dalla croce nascosta nelle tenebre cimiteriali ai fastigi meravigliosi delle basiliche, trionfi e rovine, gloria e miseria, millenni di vita e di operosità nel nome sempre risorgente di Roma.
A questo inno alato la rivista fa seguire una traduzione poetica della preghiera a Roma di Rutilio Namaziano. È ovvio che sarebbe facile raccogliere, nelle opere di politici, di giornalisti, di accademici, più o meno illustri, del ventennio, un florilegio di ricami su questo concetto banale; fra gli svolgimenti meno triviali del tema posso indicare un articolo di Bottai quale ministro dell’Educazione nazionale su Roma nella scuola italiana. Il ministro scrive due o tre anni dopo la fondazione dell’impero fascista e Mussolini appare come «la figura di un genio, degno di stare alla pari delle maggiori di ogni tempo». Il culto di Roma, tutt’altro che nuovo, prende in questi anni una coloritura misticheggiante. La continuità di Roma si configura come quella di «una forza occulta d’una grandezza lontana, dinanzi a cui si piegano i barbari, e con la quale si conciliano i Padri della Chiesa […] forza ignota, starei per dire mistica». Dunque continuità di Roma antica nella Chiesa. La medesima forza, «poi, sgorga nella nuova lingua nazionale, risplende nel Rinascimento, converte le ideologie in realtà nazionale. E, oggi, ci ridesta dall’assopimento della decadenza: sangue del nostro sangue, giovinezza pullulata dal sentimento del passato, viva, operante, nell’attualità dello spirito consapevole di sé». La continuità presuppone l’identità: infatti «il popolo è sempre il medesimo, nelle sue qualità intuitive, nella sua personalità artistica, nella sua capacità di equilibrio». Qui Bottai pensa al popolo italiano; ma egli non vuole restringere, romanticamente, la continuità dell’orizzonte nazionale, perché «Roma s’identifica con l’Europa». Tuttavia è l’Italia fascista che riprende i valori e le virtù della romanità. Il rapporto con quella forza perenne non consiste in una imitazione di modelli, ma in una ricreazione originale e modernissima:
Noi non vogliamo tanto informarci su Roma, quanto formarci da Roma: formarci per un’applicazione attuale, modernissima, della sua energia unificatrice, coordinatrice, disciplinatrice.
Come si vede, sia Mussolini sia Bottai valorizzavano la continuità fra la Roma imperiale e la Roma cristiana; questo concetto banale è alla base di un orientamento di fondo della rivista «Roma» e dell’Istituto di Studi Romani. Viene riattualizzato, specialmente da parte di Galassi Paluzzi, il concetto notissimo, elaborato e dibattuto nel cristianesimo della tarda antichità, secondo cui l’impero romano fu voluto dalla divina provvidenza per facilitare la diffusione del verbo di Cristo; naturalmente l’eredità dell’impero da parte del cristianesimo consisteva innanzi tutto nell’ecumenicità del potere e nella centralità di Roma. Oltre a intellettuali del regime ne sono convinti anche provetti latinisti. Si riscoprono persino i presagi del cristianesimo in Virgilio. La continuità fra la Roma dei Cesari e la Roma cristiana non era universalmente accettata neppure nella prima metà del nostro secolo: perciò Galassi Paluzzi sentì il bisogno di polemizzare contro chi opponeva le due Rome e rivendicava la Roma pagana, e avvertì che bisognava distinguere nettamente fra impero e paganesimo. Galassi Paluzzi era il più adatto a saldare l’alleanza fra la cultura fascista (e nazionalista) e la cultura cattolica, compito che fu il più importante per la rivista e per l’Istituto.
Nella rivista, l’intervento più originale e meno triviale sull’eredità romana nel cristianesimo si deve, ancora una volta, a Bottai. Nel 1942 egli vi pubblicò un piccolo saggio su L’ideale romano e cristiano del lavoro in san Benedetto. Nella comunità monastica di san Benedetto, in cui il monachesimo non era fuga ed evasione, e nel pensiero del santo egli vedeva una felice fusione di cristianesimo e di romanità. E questo già nello stile della Regola, «così nudo, serrato, procedente per imperativi, [che] assomiglia al linguaggio giuridico e a quello delle allocuzioni militari degli antichi signori del mondo». Nel testo egli ammira specialmente la discrezione, che attenua la rigidità della norma in modo da lasciare libertà all’iniziativa dell’educatore e alle diverse nature e tendenze dei discepoli: ne esce così una figura di maestro, che unisce la gravità dell’antico pater familias romano e lo zelo della carità cristiana. Traspare un ideale pedagogico di Bottai, che forse ha anche dei riflessi politici: sintesi di amore e di autorità, senza tirannia; legge senza capriccio; fusione di contemplazione e azione, di preghiera, studio e lavoro manuale (si ricorderà che egli introdusse anche il lavoro manuale nella scuola). Viene felicemente valorizzata anche la coralità della vita monastica. Ma ciò che qui importa valorizzare di più, è che, secondo Bottai, «Dio e Roma sono gl’ispiratori della Regola»; alla fine una netta distinzione fra comunità e comunismo, quest’ultimo cruento e infecondo.
Negli ultimi anni del fascismo, la valorizzazione dell’eredità cristiana venne rafforzandosi, io credo, nella rivista. Nel 1943 si nota una breve, ma rilevante polemica che Galassi Paluzzi condusse contro il noto giornalista Mario Missiroli. Questi, in un articolo pubblicato su «Il Piccolo» di Trieste, aveva affermato che senza l’impero romano il cristianesimo sarebbe rimasto una setta giudaica; Galassi Paluzzi obietta energicamente che il cristianesimo aveva già in sé le forze per un’espansione ecumenica, che portava su di sé «il sigillo eterno della universalità»: l’impero fu un mezzo che la provvidenza divina usò per il trionfo del cristianesimo, «un ausilio incomparabile e necessario», ma «la bellezza suprema e l’altezza morale» furono tesori propri della dottrina cristiana; e poco sarebbe rimasto dell’universalità politica romana senza il cristianesimo. La conciliazione fra Stato e Chiesa cattolica, conclusa con i Patti Lateranensi del 1929, non ebbe eco immediata nella rivista, e questo mi ha un po’ sorpreso; tuttavia, in un articolo dell’anno seguente troviamo una reazione entusiastica di Galassi Paluzzi. Partendo da Virgilio, egli arriva a Manzoni, presentato come l’ultimo figlio del grande poeta latino; Manzoni viene esaltato perché operò nel suo pensiero la sintesi di Chiesa e nazione cattolica; nel 1930 la sintesi si è pienamente realizzata:
Ringraziamo la Divina Provvidenza che ci ha permesso di vedere in questi tempi realizzato l’auspicio dell’ultimo grande figlio italiano di Virgilio per mezzo della fede e del genio del Pontefice che regge le sorti della Chiesa e del meraviglioso Uomo latino e italico che regge oggi le sorti della nostra patria.
Una storia provvidenziale, i cui eroi sono personaggi miracolosi.
Il decennale dei Patti fu celebrato nella rivista con la pubblicazione di una conferenza di Roberto Forges Davanzati, uno dei vecchi intellettuali del regime, anche se la conferenza era stata tenuta nel gennaio del 1935. Pio XI, «il grande Papa che diede all’Italia la Conciliazione», fu celebrato, quando fu completato il suo sepolcro nelle Grotte Vaticane, con un articolo di Guido Guida. Vi furono rilevanti segni di particolare devozione per il nuovo pontefice, Pio XII: per esempio, il settimo fascicolo dell’annata 1939 era preceduto da una fotografia di papa Pacelli che impartiva l’apostolica benedizione. Nell’annata 1943 compare un elogio di Pio XII, Un papa due volte romano, scritto dal cardinale Ermenegildo Pellegrinetti. Il nuovo papa è romano due volte, perché capo della Chiesa di Roma e perché rampollo di una famiglia nobile della Roma papale. Il cardinale ribadisce il concetto che l’impero romano fu voluto dalla divina provvidenza, ma ricorda pure che i pontefici romani respingono l’idea di dovere il loro primato all’essere stata Roma capitale dell’impero (la stessa polemica svolta da Galassi Paluzzi). Anche se la fedeltà al regime pericolante viene ribadita, il gruppo dell’Istituto cerca il più solido sostegno della Chiesa. Viene poi pubblicata la lettera inviata da Pio XII al cardinale vicario di Roma dopo il bombardamento della città e, in quest’occasione, si esprime la speranza che l’Europa venga unificata nella fede cristiana sotto un solo pastore.
Tratto da A. La Penna, Filologia e studi classici in Italia tra Ottocento e Novecento. Volume primo: Orientamenti, istituzioni, temi, a cura di Stefano Grazzini e Giovanni Niccoli, 2023 (pp. 247-251).
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Questo volume, presto affiancato e completato da un secondo e da un terzo, riunisce gli articoli e gli interventi che, dagli anni Sessanta fino all’inizio del XXI secolo, Antonio La Penna ha dedicato alla storia della filologia e degli studi classici in Italia tra Ottocento e Novecento. Li hanno raccolti con competente e amorevole cura, corredandoli di una illuminante premessa, due allievi del grande Maestro, Stefano Grazzini e Giovanni Niccoli. Per merito loro i lettori hanno adesso a disposizione un ampio e avvincente materiale, finora variamente sparso e di difficile reperimento, che conferma il rilievo di Antonio La Penna nel panorama culturale italiano.
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