SUA ALTEZZA, IL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI DAMERICA

COM’È NATA LA COSTITUZIONE AMERICANA E QUALI SONO LE SUE RADICI?

La costituzione degli Stati Uniti è in vigore da quasi due secoli e mezzo e, pur ritoccata e arricchita nel corso del tempo da una serie di emendamenti, è rimasta inalterata nella sua architettura fondamentale. Si tratta di un vero prodigio storico, che non ha paragoni nelle vicende costituzionali del mondo occidentale nell’Otto e Novecento. 
Eppure, assai intricate sono le origini di quel testo semplice e conciso, che ha resistito all’usura delle trasformazioni economico-sociali e dell’enorme espansione territoriale che le tredici colonie fondatrici degli USA conobbero dopo l’indipendenza. Vale quindi la pena riflettere su come sia nata la costituzione americana e su quali siano le sue radici, specie quelle meno note e oggi pressoché dimenticate dalla quasi totalità dei cittadini statunitensi (ed europei).
Una rivoluzione costituzionale

Che la rivoluzione americana sia stata una «rivoluzione costituzionale» (tesa ad instaurare la supremazia delle regole e delle leggi e, quindi, diversa da quella sociale e violenta esplosa in Francia pochi anni dopo), è stato detto e argomentato da studiosi di grande autorevolezza (da Charles H. McIlwain a Nicola Matteucci). In verità, sin dai tempi dei primi insediamenti nel XVII secolo e della concessione delle carte coloniali, le comunità inglesi emigrate nel nuovo continente basarono la loro convivenza civile su documenti scritti i quali, sebbene concessi dal sovrano, divennero il pilastro giuridico dei territori d’oltreoceano gettandovi il seme della libertà. Pur rette da un governatore di nomina regia, le colonie avevano assemblee legislative elettive, che funsero da palestre costituzionali e democratiche. Antiche e solide, anteriori cioè alla penetrazione del pensiero illuministico, sarebbero le radici dei mutamenti nel costume politico e nella mentalità giuridica, che verranno poi sanciti dalla guerra d’indipendenza e dal definitivo distacco delle colonie dalla madrepatria. La maggior conquista della rivoluzione americana si racchiuderebbe, dunque, nel primato delle norme costituzionali e delle leggi, fissate per iscritto e superiori alle passioni e agl’interessi dei singoli cittadini. Il diritto, e non la forza, fu il principio ispiratore della vita interna della nuova confederazione statale sorta dalla rivoluzione.

L’influenza del pensiero europeo e dell’Illuminismo

Ciò è senz’altro vero, ma non rende ragione di altri aspetti e fenomeni rilevanti della vita politica e intellettuale nelle colonie nordamericane. Non è lecito negare o sminuire l’apporto essenziale del pensiero europeo e dei classici dell’illuminismo. I legami, culturali e sentimentali, tra le due sponde dell’Atlantico erano allora saldissimi; anzi, malgrado le colossali distanze coperte a fatica dai mezzi di trasporto dell’epoca, essi apparivano assai più stretti di quel che sarebbero stati in epoche successive, quando le pulsioni isolazionistiche negli USA e i furori antiamericani in Europa avrebbero tante volte offuscato nell’uno e nell’altro mondo la percezione delle comuni radici. Il rinnovamento del pensiero politico nel vecchio continente varcò l’oceano propagandosi nelle colonie britanniche. Non solo Montesquieu, ma anche Rousseau e gli altri filosofi radicali venivano letti e commentati sull’altra sponda dell’Atlantico, contribuendo a plasmare la visione politica degli intellettuali americani.

L’ammirazione per i classici e il culto di Roma e di Sparta

Il culto della tradizione repubblicana, che era uno degli elementi centrali del nuovo pensiero politico, si nutriva bensì di esempi contemporanei (dalla rivoluzione di Cromwell ai Paesi Bassi e agli altri Stati repubblicani), ma ancor più era pervasa di reminiscenze classiche e d’ammirazione per Atene, Sparta e Roma (specie per quest’ultima). Può forse riuscire stupefacente per noi, abituati a considerare l’antichità classica oggetto di studi eruditi e seriosi, concepire un’epoca della storia moderna in cui la profonda conoscenza dei testi greci e latini formava la base di una cultura non scolastica, ma viva e tutt’altro che avulsa dai temi e problemi dell’attualità.

Nel Settecento gli ideali repubblicani, corroborati dalla lettura degli autori latini e greci, permeavano la riflessione politica e influivano altresì sull’elaborazione di progetti tesi al trionfo delle virtù civiche tipiche (così si riteneva sulle due sponde dell’oceano) delle città-Stato dell’antichità. In America il culto di Roma e di Sparta finì per intrecciarsi con la radicata consapevolezza che gli agricoltori d’oltreoceano, liberi proprietari, fossero i più adatti a praticare le virtù necessarie per un buon governo repubblicano. Come ha scritto lo storico statunitense Gordon S. Wood, «nell’eccitazione del movimento rivoluzionario, i valori repubblicani classici si fusero con la tradizionale immagine degli americani, gente semplice amante della libertà e dell’uguaglianza, formando una delle ideologie più coerenti e potenti che il mondo occidentale avesse mai prodotto».

Benjamin Franklin e Plutarco

La conoscenza approfondita degli autori classici e del mondo antico era, certo, appannaggio dei ceti colti e istruiti, i quali leggevano senza difficoltà il latino e il greco. Ma gli scrittori più celebri erano noti, in versione inglese, ad un vasto pubblico, grazie anche all’elevato grado d’alfabetizzazione dei coloni americani. Nell’Autobiografia Benjamin Franklin raccontò come nella piccola biblioteca di suo padre Josiah, un religiosissimo artigiano inglese trasferitosi a Boston nel 1682, figurassero anche le Vite di Plutarco, che egli adolescente lesse a lungo; e confessò di pensare «tuttora», in tarda età, «che quel tempo sia stato speso con grande profitto». Neppure nel bagaglio culturale dei ceti umili mancavano i più celebri autori dell’antichità, che erano divorati assieme alla Bibbia e alla vasta letteratura d’argomento religioso, fiorita in Inghilterra e in America sul terreno delle vivaci dispute dell’epoca. L’autodidatta Franklin, il quale a dieci anni aveva dovuto interrompere gli studi per lavorare nella bottega del padre, da grande volle imparare il latino, malgrado i suoi tanti impegni d’imprenditore, uomo politico e scienziato.

Lo spirito d’indipendenza degli americani

Che la società americana fosse assai meno gerarchica di quella europea e che ben minori vi si presentassero le disparità economiche, ebbero modo di constatarlo ancor prima di Tocqueville i viaggiatori più sagaci venuti dal vecchio continente. Un sacerdote svedese, che visitò il New Jersey nel 1770, notò che qui i contadini agiati avevano un tenore di vita paragonabile a quello della piccola nobiltà del suo paese. Lo spirito d’indipendenza e il sentimento di dignità degli americani affondavano le proprie radici, oltre che nella vastità di terre a disposizione degli agricoltori, nell’ampia autonomia di cui le colonie godevano sin dalla nascita e che fu messa seriamente in pericolo solo intorno alla metà del XVIII (provocando, come sappiamo, la rivolta contro l’Inghilterra). Una siffatta mentalità, coniugandosi con le idee illuministiche provenienti dalla vecchia Europa, portò alla rivoluzione e alla guerra con la madrepatria.

Gli eventi del 1776-1777: il laboratorio della costituzione

Sebbene qualcuno abbia persino negato il carattere rivoluzionario della dichiarazione d’indipendenza (1776) e dei successivi avvenimenti, non v’è dubbio che gli eventi d’America siano stati il prologo dei successivi sconvolgimenti in Europa (i quali, peraltro, avrebbero poi preso una piega differente dal modello originario). Le idee sul patto sociale e sulla sovranità popolare, da tempo circolanti sulle due sponde dell’oceano, ebbero modo di concretarsi e d’affermarsi, per la prima volta, proprio durante la rivoluzione americana. Per quanto sia importante l’indagine sulle radici e sulle premesse della rivoluzione, non bisogna dimenticare che gli eventi del 1776-1777 rappresentarono l’autentico e originale laboratorio della costituzione. Fu allora, dopo l’inizio del conflitto armato con la Gran Bretagna, che le colonie ribelli fissarono in nuovi documenti scritti le regole della convivenza democratica al proprio interno, gettando alle ortiche i vecchi statuti concessi dai re d’Inghilterra. Pur diverse tra loro in dettagli operativi, le nuove carte costituzionali elaborate dagli Stati in lotta per l’indipendenza proclamavano la sovranità del popolo, la separazione dei poteri, il ruolo essenziale dell’assemblea legislativa elettiva. Ve n’erano di assai radicali, come quella della Pennsylvania (somigliante, per certi versi, alla costituzione giacobina del 1793), e di più moderate, come la carta approvata nel 1780 dai coloni del Massachusetts (che fungerà poi da modello per la costituzione finale degli Stati Uniti). Ma tutte erano accomunate dal proposito di fissare norme chiare e nuove, che traessero legittimità dalla volontà del popolo costituente.

Il dibattito sul nuovo governo: federalisti e antifederalisti

Dopo che, nel 1783, le tredici colonie (nel frattempo unitesi in una confederazione di Stati) videro riconosciuta internazionalmente la loro indipendenza, si posero il problema della creazione di un governo federale e d’una costituzione comune. Si sviluppò allora il lungo e tormentato dibattito tra i federalisti (come erano chiamati i fautori di una struttura unitaria, che garantisse comunque una certa autonomia ai singoli Stati) e gli antifederalisti, gelosi dell’indipendenza di cui ciascuna colonia godeva, di fatto, sin dai tempi della sua fondazione. Per risolvere le questioni ancora aperte, fu deciso di convocare a Filadelfia una sorta d’assemblea costituente, che elaborasse la carta fondamentale valida per il futuro Stato (federale o confederale).

La Convenzione di Filadelfia (maggio-settembre 1787)
La Convenzione di Filadelfia del 1787 e il dibattito “conflitto d’interessi”

Conosciamo nei dettagli le posizioni emerse alla convenzione di Filadelfia, riunitasi dal maggio al settembre 1787, grazie al diario che James Madison (l’estensore del testo finale della costituzione) tenne durante i lavori. I delegati si impegnarono in una discussione approfondita e amplissima, che spaziava dalla riflessione sulle più recenti vicende politiche alla rievocazione dei fatti salienti della storia antica e medievale. Numerosi furono, ancora una volta, i riferimenti all’esperienza politico-costituzionale di Sparta e di Roma, giudicate modelli non da imitare pedissequamente ma da studiare con attenzione.

Tra i problemi dibattuti, ci fu anche quello che noi chiameremmo conflitto d’interessi. Vi accennò, fra gli altri, Franklin, il quale ricordò l’esperienza storica della Pennsylvania, che era stata una colonia di proprietà sin da quando (1681) il quacchero William Penn l’aveva ottenuta in concessione dal re d’Inghilterra Carlo II, trasmettendola poi in eredità ai suoi discendenti. Pur mostrandosi magnanimi e accordando ai coloni là insediatisi un’assemblea elettiva, i Proprietari (Proprietors) consideravano quell’immenso territorio una cosa personale; e i governatori da loro nominati entravano spesso in conflitto con il corpo legislativo, esigendo per sé esenzioni fiscali e regalie ed impedendo che venissero tassati i beni dei padroni della colonia. Fu così che, tra gli americani, si radicò l’idea che i detentori d’enormi ricchezze non dovessero mai ricoprire importanti cariche pubbliche.

Il timore per il crescente potere delle assemblee legislative popolari

Dalla lettura del resoconto di Madison emerge un altro aspetto essenziale del dibattito, al quale val la pena accennare. Non pochi delegati espressero preoccupazione e timore per il sempre crescente potere che, in molte ex colonie, le assemblee legislative popolari andavano acquistando ai danni dell’esecutivo. Franklin tentò invano di elogiare «la virtù e il senso civico del nostro popolo minuto, che ne ha fatto sfoggio in larga misura durante la guerra, al cui esito favorevole esso ha dato il principale contributo». Il vento politico era mutato, anche sotto l’impressione suscitata dalla rivolta degli agricoltori impoveriti del Massachusetts (esplosa nel 1786 e soffocata con le armi).

La soluzione adottata: un sistema misto sul modello dello storico greco Polibio

Nel nuovo clima di diffidenza verso l’illimitata iniziativa popolare, si impose una soluzione più conservatrice alla quale, ancora una volta, contribuirono le reminiscenze classiche. Alla maggioranza dei delegati parve opportuno fondare un sistema costituzionale che sancisse, oltre all’indipendenza della magistratura, le prerogative dell’esecutivo (il presidente) e che affiancasse un autorevole corpo elitario (il senato) all’assemblea legislativa popolare (la camera dei rappresentanti). Insomma, pur senza rinunciare ai nuovi princìpi del potere costituente del popolo, molti ora propendevano per un sistema misto, contraddistinto da una sorta d’equilibrio e di sintesi tra differenti organi di potere.

Il «governo misto» britannico (re, camera dei lords e camera dei comuni) suscitava l’ammirazione di alcuni delegati presenti a Filadelfia. Ma ancor maggiore era il fascino esercitato dalla «costituzione mista» (miktè politeia), della quale aveva parlato lo storico greco Polibio nella sua monumentale indagine sull’ascesa di Roma all’epoca delle guerre puniche. Secondo la ricostruzione polibiana, la repubblica romana doveva la stabilità interna e l’espansione esterna alla sua peculiare forma di governo, che contemperava il principio monarchico (incarnato dai due consoli), quello aristocratico (impersonato dal senato) e quello democratico (rappresentato dai comizi popolari).

La nascita degli Stati Uniti

Alla convenzione di Filadelfia trionfò il principio federalista di una formazione statale, che non fosse un mero conglomerato di Stati indipendenti (ciò sarà poi sancito, sul piano linguistico, dall’obbligo di far seguire alla denominazione ufficiale United States of America il verbo al singolare); e vinsero altresì coloro i quali preferivano un forte esecutivo, indipendente dai corpi legislativi, e un senato prestigioso, ben distinto dalla camera bassa. Quando, nel 1789, si riunì il primo congresso degli USA e si insediò il primo presidente George Washington, il desiderio di conferire un’autorevolezza quasi monarchica al capo dell’esecutivo spinse alcuni senatori a suggerire per il presidente il titolo ufficiale di Sua Altezza (ma la proposta fu presto abbandonata, perché stridente con il comune sentire repubblicano).

Nacque così, a conclusione di una lunga e multiforme esperienza storica e di una accesissima discussione politica, la costituzione degli USA. Anche Franklin (il quale avrebbe preferito una carta diversa, più attenta ai bisogni del mondo popolare), il 17 settembre 1787 aveva chiuso i dibattiti della convenzione di Filadelfia esortando i delegati al voto unanime e dichiarando: «Io aderisco a questa Costituzione con tutti i suoi difetti, se pur vi sono».


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