Ucraina. Il passato per capire il presente
L’aggressione russa all’Ucraina ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica e dei governi in Occidente le vicende e il destino di questa nazione a nord del mar Nero, dal 1991 divenuta uno Stato indipendente. Non di rado l’Ucraina è stata considerata solo una vasta regione della Russia meridionale – il suo ricco e fertile «granaio» (come si diceva una volta) – che all’improvviso si è staccata dalla madrepatria al momento del crollo dell’URSS. L’indipendenza dell’Ucraina, tuttavia, non fu il risultato dell’azione dei gruppi nazionalistici di quel paese, ma va vista come l’esito di un lungo processo storico. Nel 1991 i patrioti ucraini riuscirono a realizzare un ideale, per il quale si erano battute tante generazioni di intellettuali democratici, e che era sembrato avverarsi già nel 1917-1920.
La prima formazione statale sorta sul territorio dell’odierna Ucraina fu la cosiddetta Russia di Kyiv (fiorita nei secoli X-XIII), che viene generalmente considerata la culla della civiltà russa. È davvero così? In realtà, il periodo kievano fu l’inizio della vita statale non dei russi, bensì degli slavi orientali, e dev’essere considerato un momento storico a sé stante, conclusosi per tutta una serie di ragioni, tra le quali la più importante è l’invasione mongola, che sommerse la splendida civiltà ivi fiorita dopo la conversione al cristianesimo
degli slavi di quelle regioni.
Tramontata la civiltà di Kyiv, l’Ucraina e la Russia conobbero destini storici diversi. Nel periodo in cui aveva inizio l’ascesa del granducato di Mosca (XIV secolo), l’Ucraina veniva liberata dal dominio mongolo per opera del principe lituano Algirdas. Il Granducato di Lituania inglobò dapprima tutta la Bielorussia e poi gran parte dell’odierna Ucraina. Prima ancora che il granduca di Mosca Dmitrij Donskoj sconfiggesse l’Orda d’oro tataro-mongola a Kulikovo (1380), l’esercito lituano aveva sconfitto le armate del khan in una memorabile battaglia conquistando Kyiv (1362). Il Granducato di Lituania divenne in breve tempo uno dei più potenti Stati dell’Europa orientale, esteso dal Baltico al mar Nero. La sua forza non stava però solo nell’abilità guerriera dei suoi principi. L’espansione militare fu accompagnata e agevolata da un’intelligente politica interna, tesa alla pacifica convivenza delle molte etnie e alla tolleranza religiosa. I dominatori baltici non imposero la loro lingua e la loro cultura alle popolazioni slave conquistate; anzi, queste ultime diedero un notevole apporto allo Stato lituano, tanto che i principali codici di leggi vennero redatti nella lingua dei vinti, usata accanto al latino e al tedesco. Alla fine fu proprio il ruski (una lingua slava, sulla cui esatta natura le opinioni degli studiosi sono discordi) a imporsi nei documenti ufficiali e nelle cronache. Come scriveva nel 1501 il vescovo di Płock a papa Giulio II, «[i lituani] possiedono una propria lingua. Però, giacché i Ruteni abitano il cuore del Granducato, la loro lingua, graziosa e più facile, è usata comunemente».
Con l’Unione di Lublino (1569), che sancì la nascita dello Stato polacco-lituano (la cosiddetta Rzeczpospolita), la maggior parte delle province ucraine, prima appartenenti al granducato di Lituania, passò sotto il dominio diretto del re di Polonia. Malgrado il tentativo di polonizzare l’Ucraina e d’introdurvi il cattolicesimo, il nuovo dominio polacco ebbe nel complesso effetti positivi, perché non mise a repentaglio l’identità culturale ucraina (la quale, anzi, poté beneficiare all’inizio della raffinata civiltà e della tolleranza religiosa tipiche della vita interna della Polonia cinquecentesca sin dai tempi della regina Bona Sforza). I dotti ucraini, oltre a imparare il latino e ad aver notizia della cultura occidentale, usufruirono delle fiorenti tipografie delle cittadine polacche, tra le quali è da ricordare Raków (l’«Atene sarmatica», centro del movimento ereticale sociniano). Dalla seconda metà del Cinquecento, gli intellettuali ucraini vennero così a diretto contatto, tramite la cultura polacca, con taluni aspetti della civiltà occidentale.
Se, sul piano culturale, la dominazione polacca portò un indubbio progresso, la perdita dell’autonomia politica e la dura soggezione dei contadini alla nobiltà furono il lato negativo della medaglia. Le endemiche rivolte contadine contro la nobiltà polacca culminarono in una grande guerra insieme sociale e nazionale, cominciata nel 1648 sotto la guida dell’etmano (comandante cosacco) Bohdan Chmel’nyc’kyj. Dopo una serie di vittorie sugli eserciti polacchi, l’insurrezione si concluse con il trattato di Perejaslav (1654), che pose l’Ucraina sotto la tutela dello zar di Mosca.
Dalla seconda metà del Seicento l’Ucraina gravitò nell’orbita dell’impero zarista, conservando per alcuni decenni una relativa autonomia, che andò perduta sotto Pietro il Grande e soprattutto sotto Caterina II. La lunga dominazione moscovita fu alquanto disastrosa, sul piano culturale e materiale, per il popolo ucraino. Per i russi, invece, l’incorporazione di un vasto territorio economicamente e strategicamente importante risultò assai vantaggiosa. Oltretutto, tramite la cultura polacca assimilata dai dotti ucraini, nella seconda metà del Seicento la Russia poté accostarsi alla civiltà occidentale. Aspetti importanti della cultura polacca (dalla conoscenza del latino alla raffinata vita di corte) penetrarono nell’arretrata Moscovia, rinnovando i costumi delle classi superiori. Nel corso del XIX secolo l’identità culturale ucraina, a cominciare dalla lingua, fu soffocata dal governo zarista. Ma fu proprio nell’Ottocento che gli intellettuali ucraini riscoprirono e tennero viva la consapevolezza di appartenere ad una comunità etno-culturale diversa da quella russa. Meno facile è stabilire se e in qual misura le masse contadine e popolari avessero allora una coscienza patriottica. Analoghi quesiti sorgono, d’altronde, studiando la storia del sentimento nazionale in altri paesi durante il XIX secolo.
Quando, in seguito alla rivoluzione di febbraio del 1917, lo zarismo fu abbattuto, sembrò giunta l’ora del riscatto nazionale dell’Ucraina. L’Associazione dei progressisti ucraini (Tovarystvo ukrajins’kych postupovciv) si fece allora promotore della convocazione di un Consiglio centrale ucraino (Central’na Ukrajins’ka Rada), che rappresentasse le principali organizzazioni sociali e i partiti politici ucraini. La nuova istituzione, guidata dallo storico Myhajlo Hruševs’kyj, godé sin dall’inizio di grande prestigio. Si poté così convocare a Kyiv, nell’aprile 1917, un congresso nazionale ucraino di circa 900 delegati. Il 23 giugno 1917 il Consiglio centrale ucraino (Rada) promulgò il primo dei quattro celebri «universali», invitando il «popolo ucraino» a eleggere un’assemblea legislativa e a creare nuove amministrazioni locali.
Contando sul sostegno del proletariato dei centri industriali e sulle rivolte contadine contro i proprietari terrieri, i bolscevichi di Mosca mossero guerra alla Rada. Dopo un bombardamento durato undici giorni, il 26 gennaio 1918 le truppe bolsceviche entrarono a Kyiv. Prima di soccombere, la Rada aveva proclamato, con il quarto universale del 22 gennaio 1918, l’indipendenza dell’Ucraina, accentuando altresì il carattere socialista del «nuovo Stato libero e sovrano del popolo ucraino». Le riforme annunciate rimasero tuttavia sulla carta, perché il governo della Rada dovette rifugiarsi a Žitomir. Per poter tornare a Kyiv, i patrioti ucraini firmarono un accordo con gli imperi centrali, aprendo le porte del paese agli eserciti austro-tedeschi.
L’intesa tra la Rada liberalsocialista e il comando germanico fu di breve durata. Gli ufficiali tedeschi diffidavano di un governo ai loro occhi troppo rivoluzionario, preferendo trattare con un’amministrazione più moderata. Il loro uomo di fiducia fu il generale zarista Pavlo Skoropads’kyj, che aveva il sostegno dell’Unione dei proprietari terrieri. Skoropads’kyj assunse il potere alla fine di aprile proclamandosi, con un titolo mutuato dalla tradizione cosacca, «etmano di tutta l’Ucraina» (colpo di Stato del 29 aprile 1918). Contro il governo di Skoropads’kyj combatterono sia i sostenitori della Rada, sia i bolscevichi ucraini legati a Mosca. Questi ultimi, sotto la regia del Cremino, diedero vita nel luglio 1918 al partito comunista ucraino. Ma non furono né le rivolte contadine né i tentativi insurrezionali dei bolscevichi a far cadere Skoropads’kyj. L’etmano uscì di scena quando i suoi protettori austro-tedeschi, sconfitti dagli eserciti dell’Intesa, dovettero abbandonare l’Ucraina.
Nel mese di novembre i patrioti della Rada a passarono al contrattacco. Il direttorio (dyrektorija) di 5 membri da loro creato allestì un esercito, che nel giro di poche settimane conquistò gran parte del territorio ucraino. Quando, il 14 dicembre 1918, le truppe del direttorio guidate da Symon Petljura entrarono trionfalmente a Kyiv, sembrò che stesse per coronarsi il sogno di generazioni d’intellettuali democratici ucraini. Tuttavia, incalzato dai comunisti ucraini, i quali potevano ora contare sul decisivo sostegno dell’armata rossa, il governo del direttorio dovette presto soccombere. Dalla città russa di Kursk, i seguaci di Lenin mossero verso sud-ovest occupando Charkiv il 3 gennaio 1919 e conquistando Kyiv all’inizio di febbraio.
I bolscevichi leninisti si installarono saldamente al potere e introdussero in Ucraina il sistema politico-sociale già sperimentato in Russia. La polizia politica (Čeka) seminò il terrore nel paese, arrestando o fucilando quanti si opponevano al regime comunista. Nelle campagne le «squadre annonarie» effettuarono quelle requisizioni forzate di prodotti agricoli, tipiche del «comunismo di guerra», che i contadini russi subivano già da tempo. Tali metodi produssero un crescente isolamento dei bolscevichi e favorirono la loro caduta nell’estate 1919. Ad agosto le truppe del generale bianco Denikin entrarono a Kyiv, mettendo fine al secondo esperimento comunista in Ucraina. L’armata rossa riuscì a cacciare l’esercito di Denikin dall’Ucraina tra la fine del 1919 e l’inizio del 1920. Alla vittoria bolscevica contribuirono le bande contadine del bat’ko (babbo) Nestor Machno, un capo partigiano d’orientamento anarchico che aveva creato nel territorio di Guljajpole una repubblica contadina indipendente, retta da regole diverse da quelle vigenti nelle zone amministrate dai comunisti.
La coscienza nazionale ucraina prese corpo, a livello di massa, dopo la rivoluzione bolscevica, quando il paese conobbe per pochi anni l’esperienza dell’indipendenza. La difficile via dell’autonomia culturale e linguistica nell’ambito dell’URSS fu percorsa negli anni ’20 del Novecento, ma si interruppe bruscamente in seguito alla svolta politica centralizzatrice decisa da Stalin. Il genocidio del 1932-1933 (holodomor, la morte per fame di milioni di contadini) creò tra Ucraina e Russia un baratro, che non si è più colmato. Se non avesse fatto parte dell’impero sovietico, l’Ucraina non avrebbe conosciuto un’esperienza dolorosa come lo sterminio per fame di quattro milioni di pacifici e laboriosi agricoltori. La tragedia del holodomor non è soltanto una drammatica pagina di storia appartenente al passato. Essendo assurta a doloroso simbolo dell’identità nazionale dell’Ucraina, essa dev’esser conosciuta da chi vuol capire i sentimenti più profondi di quel popolo.
Alla fine della seconda guerra mondiale, dopo l’occupazione tedesca, l’Ucraina fu riassoggettata all’Unione Sovietica, ora ingrandita dalle vittorie militari. La parte occidentale, cioè la regione di Leopoli appartenuta prima all’Austria e poi alla Polonia, entrò a far parte anch’essa dell’impero di Stalin. Oltre alle repressioni in atto in tutti i territori dell’URSS, qui si ebbe l’oppressione della Chiesa greco-cattolica, perseguitata dal regime comunista perché fedele non al patriarcato ortodosso di Mosca, ma alla Chiesa di Roma.
Tra i canati eredi dell’impero mongolo dell’Orda d’oro, quello di Crimea sfuggì a lungo al dominio della Russia. Anche il nome della penisola, che i greci avevano chiamato Chersoneso Taurico (Chersónesos Tauriké, cioè Penisola dei Tauri), veniva dai conquistatori tatari e sarebbe rimasto in russo e in ucraino (Krym). Fu Caterina II ad annettere la Crimea, nel 1783, dopo aver sconfitto militarmente l’impero ottomano, del quale il piccolo canato era vassallo. Per i tatari si trattò di un’esperienza drammatica, perché cominciò allora quella diaspora verso le province della Turchia, che avrebbe assottigliato sempre più la popolazione locale turcofona e musulmana. L’importanza strategica della penisola accelerò e inasprì il processo di russificazione.
Uno spiraglio di autonomia parve aprirsi, per la gente tatara in Crimea, con l’avvio della politica sovietica di apertura verso le nazionalità non russe negli anni ’20. Ma si trattò di un breve sogno, al quale seguirono la collettivizzazione forzata e le repressioni politiche. Alla fine della seconda guerra mondiale, poi, la deportazione verso l’Asia centrale della popolazione tatara, accusata di collaborazionismo con i tedeschi, fu vissuta come un genocidio, anche per l’alto numero di deceduti.
La destalinizzazione avviata dopo il 1953 portò ai tatari di Crimea meno benefici di quelli concessi alle altre nazionalità. Essi, infatti, ebbero difficoltà a tornare nelle loro terre e non ottennero il ripristino della regione autonoma, che li avrebbe meglio tutelati. Le cose parvero migliorare per loro con la fine dell’URSS e con la nascita dell’Ucraina indipendente nel 1991. La Crimea russificata era stata donata all’Ucraina da Krusciov nel 1954, come accadeva sovente nell’Unione Sovietica, dove il governo di Mosca spostava a piacimento i confini delle varie repubbliche. Così, con la proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina, la Crimea restò a far parte del nuovo Stato.
Con il pretesto che la maggioranza della popolazione era etnicamente russa, nel 2014 Putin occupò militarmente la Crimea nella quasi indifferenza dell’Occidente e poco curandosi delle sanzioni decretate dagli USA e dall’Unione europea. Allora fu già chiara la volontà espansionistica del presidente russo, la cui aspirazione è sempre stata la rinascita dell’impero sovietico, interno ed esterno.
La situazione europea e internazionale oggi ricorda quanto accadde alla vigilia della seconda guerra mondiale, allorché le democrazie occidentali sottovalutarono le mire espansionistiche e la volontà di potenza di Hitler. Quando se ne accorsero, alla fine dell’estate del 1939, era ormai troppo tardi: la politica dell’appeasement non aveva fermato la Germania nazista quando era ancora militarmente debole, e non aveva evitato la guerra. Così, oggi bisogna fare i conti con una Russia aggressiva e dotata di armi micidiali. Spinto dalla brama di rivincita, Putin non esiterà a scatenare una guerra generale pur di veder rinascere l’anacronistico impero sovietico, già condannato dalla storia, e cercherà di riprendersi prima i territori dell’URSS aggredendo poi, se necessario, anche i paesi un tempo satelliti della Russia sovietica.
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Ettore Cinnella, specialista di storia russa e allievo della Scuola Normale Superiore, ha insegnato per molti anni Storia contemporanea e Storia dell’Europa orientale all’Università di Pisa. Ha scritto numerosi saggi di storia russa e di storia moderna e contemporanea, tradotti in diverse lingue. Il suo libro Ucraina. Il genocidio dimenticato è stato finalista al Premio Friuli per la storia e ha avuto in Italia un grande successo di critica e di pubblico.
Tra l’autunno del 1932 e la primavera del 1933 sei milioni di contadini nell’URSS furono condannati a morire di fame: quasi i due terzi delle vittime erano ucraini. Quella carestia di proporzioni inaudite non fu dovuta ai capricci della natura, ma venne orchestrata da Stalin per punire i ribelli delle campagne che, in tutta l’URSS, si opponevano alla collettivizzazione imposta dall’alto. In Ucraina lo sterminio dei contadini, il cosiddetto holodomor, s’intrecciò con la persecuzione dell’intellighenzia e con la guerra al sentimento patriottico di un popolo. Sulla base della documentazione emersa dopo il crollo dell’URSS, il libro ricostruisce quei drammatici avvenimenti e spiega le motivazioni che spinsero Stalin a prendere decisioni così spietate.
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